Un metodo per educare?
- 13 lug 2020
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 30 lug 2020
Giovanni -

Il metodo in educazione: realtà vs illusione
Educare non è qualcosa di ripetitivo, unico e uguale per tutti: al contrario, sembrerebbe che ognuno abbia il suo stile, il suo modo di fare educazione.
Ci sono però alcuni elementi comuni, che ognuno di noi mette in pratica quando educa.
Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, ma riteniamo utile riprendere questo aspetto molto ostico e complesso: alla base del nostro comportamento (soprattutto quando educhiamo, ma non solo) sono presenti e agiscono tantissime componenti che non sono affatto facili da riconoscere.
E anche quando crediamo di saper spiegare il perché delle nostre azioni, non sempre riusciamo a guardarle in una luce critica per una analisi approfondita.
Esiste un metodo per educare?
Questa domanda è fondamentale e allo stesso tempo illusoria: è importante avere un modello a cui fare riferimento, ma allo stesso tempo non dobbiamo cadere nell’illusione che esista un risposta definitiva e che ci soddisfi una volta per tutte.
Possiamo immaginare il metodo come una strada a più corsie: è la base che ci fornisce la direzione, grazie alla quale ogni singolo individuo può scegliere come declinare la sua guida.
Proviamo quindi a delineare alcune possibili vie orientative, con la consapevolezza che si tratta di un argomento molto ampio e pieno di sfaccettature, e che non pretendiamo certo di esaurire in questa sede.
Che valori? Piccola guida alla riflessività (seconda)
“Lo studio è importante perché credo sia fondamentale per avere un lavoro in futuro.”
“È giusto che i ragazzi con difficoltà di apprendimento stiano con i loro compagni di classe e non in classi speciali apposite per loro, perché credo nel valore dell’inclusione.”
“Mando mio figlio a fare uno sport perché credo nell’importanza di un sano sviluppo fisico.”
Le scelte che compiamo vengono prese in nome di certi principi e valori.
Ciò a cui dobbiamo fare attenzione è prendere consapevolezza di cosa riteniamo importante ed eventualmente metterlo in discussione: è un lavoro riflessivo su noi stessi che non si ferma alla superficie, ma va in profondità e scava sulle nostre certezze. Si sceglie in nome di credenze, ma non è detto che siano le migliori o le uniche possibili.
Riflettere significa, in questo caso, pensare i pensieri. Sembra un gioco di parole, ma in realtà si tratta di interrogarsi sulle modalità e i significati che guidano il nostro processo decisionale.
Cosa significa? Il nostro agire risponde molto spesso a idee date per scontate, già presenti e che ci fanno scegliere in modo inconsapevole. La riflessività seconda (o metacognitiva) ci aiuta, quindi, ad agire in modo consapevole, e ci salva dal comportarci secondo il senso comune oppure l’abitudine quotidiana.
Prima via, quindi, è la capacità di riflettere sulle idee che ritengo vere, sicure, e che non metterei mai in discussione: è una scalata che ci porta non alla cima, ma al fondamento del nostro modo di pensare, dei nostri giudizi e credenze.
Cambiare punto di vista: l’époche
Siamo costruttori di significato: ciò vuol dire che, in ogni momento della nostra giornata, elaboriamo quello che abbiamo di fronte a noi (un ragazzo che studia, il saluto di una persona…) e gli diamo un senso: la mia esperienza quotidiana non è fatta solo di quello che mi accade, ma anche della lettura che io ne faccio.
In questo caso, il rischio è la convinzione che il mio modo di leggere sia l’unico possibile. In altre parole, che il mio punto di vista sia il solo giusto.
Come fare per trovare un’alternativa e lasciare spazio ad altre versioni?
Nella pedagogia fenomenologica, uno degli approcci scientifici alla base del modo di “vedere l’educazione” per coloro che vi scrivono, si parla di epoché, ovvero la sospensione del giudizio rispetto a quanto stiamo osservando: si mette in pratica attraverso due fasi strettamente legate, la sospensione cognitiva e la sospensione pragmatica.
Pensiamo ad un bambino che sta correndo dietro ad un altro bambino.
Come interpreto la scena? Sento che stanno urlando e penso che uno dei due abbia fatto un dispetto all’altro; di conseguenza, agisco correndo verso di loro e blocco uno dei due, rimproverando o chiedendo il perché di quello che stanno facendo.
C’è stata una interpretazione seguita da una azione. E questo avviene sempre, in ogni momento.
La nostra seconda via, l’epochè, si divide in due momenti:
Il primo momento consiste nel bloccare l’interpretazione, la lettura di senso: questo mi può portare a vedere altre cose, e cambiare punto di vista. In questo caso, magari sentire delle risate e capire che si tratta di un gioco.
Il secondo momento mi chiede di fermare l’azione che deriverebbe dall’interpretazione (nel nostro caso, la corsa verso i bambini e la richiesta di spiegazioni): si attua cercando di approfondire il caso in questione, cercando maggiori informazioni e conoscenze. Come? Attraverso una maggiore osservazione ad esempio.
In altri casi dove questo non è possibile si può ricorrere al dialogo o attraverso domande di approfondimento (ad esempio, per capire meglio un’affermazione o un ragionamento di qualcuno con cui stiamo discutendo).
L’incertezza come costante dell’educazione
“La totalità è la non verità”(T. W. Adorno, Minima Moralia, 1951)
Noi agiamo come se fossimo sempre sicuri e certi di cosa è giusto o sbagliato, cosa è vero e cosa è falso. Questo principio ci aiuta a tenere presente una cosa: riconoscere l’incompletezza e l’incertezza che è sempre presente nella nostra vita, in quello che conosciamo e in quello che vediamo.
Anche la stessa scienza sa che non può essere infallibile, e che non potrà mai costruire una risposta certa e sicura al 100%.
Eppure noi abbiamo bisogno di certezze, di avere un terreno sicuro: senza questa base saremmo costantemente preda di dubbi, indecisioni, e non sapremmo mai come agire.
L’importante è che non diventi una gabbia dorata, che rischia di imprigionarci: agiamo allo stesso modo, seguendo sempre le idee e le convinzioni che abbiamo acquisito nel tempo.
Per sfuggire a questa gabbia l’importante è esserne consapevoli. E accettare che non siamo sempre nella verità, ma che questa è sempre parziale e ci sfugge continuamente.
La terza via è la consapevolezza che il nostro è solo un possibile sguardo sulla realtà e sull’educazione: diventa quindi importante chiedersi che cosa diamo per scontato e certo, e che cosa invece non sappiamo.
La mia descrizione colora la mia azione
“La mappa non è il territorio” (Alfred Korzybski)
"Il filtro creativo tra noi e il mondo è presente sempre e comunque. Ciò equivale a essere creatura e insieme creatore” (G. Bateson)
(in Gregory Bateson, Mente e natura, 1984)
Queste due citazioni ci fanno riflettere sulle modalità con cui costruiamo la nostra conoscenza.
Pensate a qualcuno che descrive un episodio passato, oppure a voi stessi quando vi è capitato. La sua e la vostra descrizione è una selezione di fatti, collegati tra loro, a cui è stato dato un significato; e questo avviene non solo per ciò che abbiamo vissuto, ma anche in base al momento presente.
Prendiamo questo articolo: sia io che sto scrivendo, che tu che stai leggendo, selezioniamo fatti, parole, ragionamenti che vanno a comporre questo testo, e che assumono un significato che noi (io e te) diamo. Potrebbe essere lo stesso significato, ma potrebbe anche essere diverso.
Questo esempio vale per ogni momento della nostra vita quotidiana (lavoro, relazioni, dialoghi...): siamo costruttori di significato, si diceva prima.
La conoscenza non è solo qualcosa di teorico, ma possiede un valore pratico: ci spinge ad agire in un certo modo.
Se devo andare in un posto e non lo conosco, seguo le indicazioni date dalla mappa; ma la mappa non è la realtà, è solo una sua rappresentazione.
La quarta via, quindi, ci spinge a riflettere sulle informazioni che orientano il nostro agire quotidiano. Ma non solo, è necessario esaminare anche le modalità con cui costruiamo la nostra conoscenza e le nostre informazioni.
Agiamo attraverso mappe, ma siamo noi che le costruiamo. E non dobbiamo scambiare la nostra costruzione come la descrizione esatta della realtà.
Una conclusione (?)
“Chi educherà gli educatori?” (Karl Marx, Tesi su Feuerbach, 1888)
Questa domanda provocatoria ci fa riflettere su un piccolo paradosso: come educare chi si occupa di educazione (o educarci). Ergo, come fare in modo tale compito venga svolto bene.
Non esiste una risposta logica a questa contraddizione. Certo, esiste l’università per i professionisti, così come anche una sempre più vasta letteratura sull’argomento (libri, articoli, ricerche) per i non addetti ai lavori. Ma il problema si ripresenta sempre, come le famose matrioske.
Avere un metodo è sicuramente un primo passo, ma non è sufficiente.
Il secondo passo è sentire la responsabilità delle azioni educative che compiamo: ciò che facciamo dell’educazione non è qualcosa di già dato, ma è una scelta che mettiamo in gioco ogni giorno.
Siamo responsabili dei valori che perseguiamo, della conoscenza che costruiamo e che orienta la nostra azione; siamo responsabili del nostro punto di vista e delle certezze che stanno alla base del nostro pensiero.
Dove c’è responsabilità c’è scelta, e dove c’è scelta c’è impegno.
La direzione che prendiamo nel nostro percorso è un compito che spetta a chi si occupa di educazione, senza nessuna distinzione. È un compito certamente arduo, che non si esaurisce mai, in continua ricerca di un approdo stabile, costantemente pervaso dal dubbio e dall’incertezza.
Ma se il percorso si avvia verso una destinazione che si sposta continuamente di un gradino più in alto, se il nostro impegno si colora dell’utopia (non come qualcosa di irrealizzabile, ma come il possibile di domani), possiamo pensare che la risposta a questo vecchio quesito non sia necessaria.
Perché non è una risposta che ci viene data da qualcuno o qualcosa, ma che costruiamo giorno dopo giorno. Con le nostre scelte, i nostri errori e la nostra volontà di camminare verso un orizzonte non ancora presente oggi. Ma che potrebbe essere realtà domani.
PER APPROFONDIRE:
Caronia L., Fenomenologia dell’educazione. Intenzionalità, cultura e conoscenza in pedagogia, 2011, FrancoAngeli Editore
Mortari L., Apprendere dall’esperienza. Il pensiero riflessivo nella formazione, 2003, Carocci editore
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